Continuo con gli scritti di Carla Castellani proponendoVi altri due racconti, che per la verità la stessa Carla aveva timore di proporre data la lunghezza degli stessi.
Sappiamo che nel virtuale tutto è veloce, d'impatto...ma...voglio ancora una volta sfidare questo detto ...e richiedo ancora la Vostra attenzione per questi due racconti, perchè penso che Vi possano coinvolgere leggendo riga dopo riga...
IL MELO
Il melo, addossato alla recinzione dell'orto, allungava i suoi rami sull'angolo meno calpestato del cortile dove l'erba, libera di crescere, formava un verde tappeto.
Sedute a terra, sotto la sua ombra, stavano due bimbe. Era quello il loro luogo preferito e, da sempre, il melo aveva assistito ai loro giochi, alle piccole baruffe, alle subitanee riappacificazioni.
Quell'amicizia, nata e cresciuta con loro, le legava di un vincolo fraterno e - ne erano certe -indissolubile.
La più giovane, leggermente più alta della sua compagna, aveva morbidi capelli castani e grandi occhi tristi, di cerbiatta spaurita. L'altra bimba aveva riccioli ribelli, di un caldo colore dorato, e occhi ridenti illuminavano la sua espressione sbarazzina.
Troppo piccole per frequentare la scuola, condividevano giochi, infanzia e mentine di zucchero, mentre il melo, come un benefico nume tutelare, presiedeva le loro giornate.
Vestito in primavera di tenui fiori bianco-rosati, vedeva arrivare le sue piccole amiche ebbre di voglia di correre e rotolarsi nell'erba, dopo la forzata segregazione invernale, e le salutava con una pioggia di petali bianchi.
Indossava poi un verde manto, lucido e scuro, fra cui occhieggiavano i grossi pomi avviati a maturazione, ed accoglieva dell'abbraccio della sua ombra le due bimbe accaldate e ansanti, che crollavano sull'erba, stanche di corse e di giochi, offrendo loro il refrigerio dei suoi frutti succosi, anche se ancora asprigni.
In autunno, dopo la raccolta delle mele che finivano accatastate in dispensa, si spogliava lentamente delle foglie ormai brune ed accartocciate, e si rattristava perché sapeva che i rigori dell'inverno l'avrebbero privato della quotidiana presenza delle sue piccole amiche. Fino al ritorno della primavera non sarebbe stata più la sua ombra, ma il calore delle grosse stufe a legna delle rispettive cucine, ad accogliere i giochi delle due bimbe.
La stagione fredda lo trovava con i rami nudi, inutilmente protesi a proteggere la magra erba invernale, e lo adornava di un prezioso abito di brina. Ora il melo riceveva solo qualche fuggevole visita dalle sue protette che, con le ginocchia e le guance arrossate e rese ruvide dal freddo, si affacciavano frettolose alla recinzione che separava i loro cortili, per confidarsi urgenti segreti.
Le stagioni si susseguivano ed il tempo passava anche per le due bimbe, che ora andavano a scuola. Il melo le vedeva passare la mattina presto col grembiulino bianco e la cartella a tracolla e, nella bella stagione, aspettava con impazienza il pomeriggio quando, finiti i compiti lo avrebbero raggiunto per leggere o giocare sotto la sua chioma.
E ancora le stagioni si susseguivano e il tempo passava. Ora sotto il melo sedevano due adolescenti e le confidenze che sottovoce si scambiavano avevano per solo argomento i primi palpiti del cuore, le prime timide simpatie. Per le due amiche era già finito il tempo dei giochi e, non più bambine ma non ancora donne, non era loro permesso indulgere nell'ozio. Perciò, nei momenti che lo studio dell'una e il lavoro dell'altra lo consentivano, sedevano sotto il melo a ricamare, perché a quei tempi, in campagna, c'era l'uso che le ragazze iniziassero molto presto a prepararsi il corredo. Intente al loro ricamo, sognavano di un futuro roseo e felice. Il vecchio melo, muto custode di quei sogni, trepidava per loro, perché sapeva che la vita non mantiene mai ciò che sembra promettere nell'età lieve dell'adolescenza.
Con il passar del tempo non erano mutate le caratteristiche fisiche delle due ragazze: agile e flessuosa, la più giovane era ancora la più alta, e i lunghi capelli castani incorniciavano un visetto sottile dove navigavano grandi occhi nocciola. L'altra, piccola e minuta, conservava l'espressione gaia che fin dall'infanzia le illuminava il viso, ed era vivace e svelta come un fringuello. Con il tempo, l'oro dei suoi riccioli aveva preso un colore ancora più caldo, e le lunghe ciglia vellutate celavano profondi occhi scuri, dove guizzava sempre l'ombra di un sorriso. Sedevano sotto il melo e con abili dita facevano fiorire sul bianco della tela preziosi ricami, mentre i loro pensieri galoppavano sulle ali della fantasia. Di tanto in tanto alzavano lo sguardo dal lavoro per sbirciare di soppiatto i loro coetanei che, in bicicletta, passavano e ripassavano sulla strada polverosa, facendo acrobatiche evoluzioni e cercando, con qualche frizzo, di carpire la loro attenzione. Ricamavano e aspettavano fiduciose, che il tempo trasformasse in realtà i loro sogni. Nelle sere d'estate, stesa una vecchia coperta sull'erba umida di rugiada, mentre i grilli frinivano fino a stordirle, stavano supine a fissare il firmamento, nell'attenta ricerca di una stella cadente che permettesse loro di esprimere un desiderio. E sempre quelli erano i loro desideri: un futuro felice, un amore ricambiato. I loro coetanei, complice l'oscurità, che l'unica illuminazione era quella fornita dal cielo stellato, si avvicinavano cauti al cancello ma, persa la baldanza che li animava di giorno, stavano timidi a guardarle, senza parlare.
Nel piccolo paese, poche case raggruppate attorno ad una strada polverosa d'estate e fangosa d'inverno, non succedeva mai niente di nuovo: i giovani si sposavano, i bambini nascevano, i vecchi morivano, e le stagioni passavano, troppo lentamente per le due ragazze che aspettavano impazienti il loro futuro di donne.
E ancora una volta arrivò l'estate, improvvisamente. In pochi giorni il grano ancora verde divenne d'oro brunito e la schiera dei mietitori avanzò per i campi lasciandosi dietro stoppie brulle e mucchi di covoni. Sotto il melo, le due ragazze intente al loro eterno ricamo, vedevano passare a sera sulla strada polverosa i mietitori sudati e stanchi che tornavano dal lavoro.
Passò anche luglio, mentre l'aria portava fino a loro il profumo, caldo di sole, del fieno appena tagliato.
Poi arrivò agosto. Solo la più giovane delle due ragazze sedette un giorno sotto il melo, il lavoro abbandonato in grembo, gli occhi persi nel vuoto ad inseguire chissà quali pensieri. La ragazza taceva e il melo non capiva perché una delle sue inseparabili amiche lo avesse ad un tratto abbandonato.
La ragazza taceva e sospirava, di giorno in giorno più triste e, sul ricamo che teneva in grembo, strano… cadevano gocce di pioggia, anche se il cielo era sgombro di nubi.
Fu in un'assolata e afosa mattina di mezz'agosto che il vecchio melo comprese, e desiderò che un fulmine lo incenerisse, per non vedere, per non sapere. In una bara tutta bianca, per l'ultima volta passò sotto la sua ampia ombra, la piccola amica dai riccioli biondi e l'altra, la ragazza dagli occhi tristi, mai più volle sedere sotto il vecchio melo.
Certamente nessuno, nel piccolo paese, più ricorda il grande melo che stava un tempo nell'angolo dell'orto, né una giovinetta dai riccioli d'oro scuro e, dagli occhi ridenti, che seduta sotto la sua ombra, ricamava un inutile corredo, sognando l'amore. Ma c'è, ancora oggi, qualcuno che non ha dimenticato. Attorno a quelli che un tempo erano grandi occhi di cerbiatta spaurita ci sono ricami di rughe, fra i capelli castani fili d'argento e nella sua mente tante illusioni di meno, ma nel suo cuore c'è ancora tanto, tanto rimpianto e, intatti, i ricordi.
---------
immagini prelevate da Internet, libera scelta di C.Colombo
Un minuscolo villaggio alpino, mollemente adagiato sulle pendici della montagna; una ventina di case, non di più, tutte rigorosamente bianche, con i balconi di legno scuro traboccanti di gerani. C'era in atto una tacita gara, fra le signore del paese, a chi esibisse i gerani più belli e questa inconfessata ma palese concorrenza dava origine ad un tripudio di colori che sgorgavano da ogni davanzale, da ogni balcone.
foto di C.Colombo
foto di C.Colombo
Una chiesetta dal tetto spiovente con un aguzzo campanile e, davanti, in piccolo cimitero, che più che un cimitero sembrava un giardino(che del cimitero non dava il senso di tristezza), con le sue artistiche croci in ferro battuto disseminate fra aiuole fiorite, all'ombra di un imponente tiglio. La domenica, all'uscita dalla Messa, i paesani nei loro tipici costumi della festa, si attardavano davanti alla chiesa, fra le croci, a scambiare saluti e chiacchiere, come se fossero in una qualsiasi piazza di paese.
Di fronte alla chiesa un vecchio alberghetto ostentava la sua malandata insegna, inutilmente, giacché non ho mai visto fermarvisi alcun cliente.
Più frequentato era invece l'altro albergo, un antico maso, che si trovava sulla provinciale il cui proprietario era per metà albergatore e per metà agricoltore.
C'era anche la scuola, con sopra l'appartamento della maestra, una giovane e graziosa biondina.
Al limite del paese una stazioncina abbandonata guardava con le occhiaie vuote delle sue finestre dai vetri rotti, i treni che passavano veloci, senza più fermarsi. Alte erbacce avevano ormai invaso gli interstizi fra le vecchie pietre e i binari abbandonati, tranne quell'unico lucente binario rimasto in funzione, su cui sfrecciava veloce il treno rosso diretto a Dobbiaco e da lì, in Austria. Per i bambini del paese era un luogo incantato, dove andare a giocare di nascosto, immaginando di vivere chissà quali avventure.
Più avanti incominciava il bosco, dapprima un castagneto di alberi secolari, dai tronchi cavi e contorti, con uno spiazzo pianeggiante utilizzato come campo da calcio dai ragazzi del paese e, d'estate, per le feste campestri. Feste molto pittoresche, con i valligiani agghindati nei loro caratteristici costumi, dove si beveva birra, si mangiavano polli allo spiedo e wurstel arrostiti e si ballava, al suono della fisarmonica, saltellanti danze tirolesi.
Più oltre, dove cominciava il bosco di abete rosso e pino silvestre, una piccola cappella, dedicata a S.Sebastiano, costruita interamente dal prete, improvvisatosi muratore, imbianchino ed anche pittore d'immagini.
Proseguendo lungo la strada che, attraversando il bosco, si inerpicava a tornanti verso la cima della montagna, si giungeva ai vasti prati adibiti a pascolo e lassù una grande croce di pietra, corrosa dal tempo e variegata di licheni, ricordava ai posteri i soldati dell'imperatore d'Austria caduti in guerra, (perché un tempo questo era territorio austriaco). Sul fondo valle l'autostrada del Brennero stendeva il suo nastro d'asfalto su cui correvano minuscoli gli automezzi, senza che il loro rumore giungesse a turbare la quiete del piccolo paese, rotta soltanto dagli strilli gioiosi dei bimbi all'uscita dalla scuola e dal rintocco del campanile che scandiva le ore.
Di fronte la Plose, con le sue pendici boscose e la cima calva, costellata da impianti di risalita per sciatori.
Così mi apparve quel piccolo paese in Alto Adige, la prima volta che ci andai, verso la metà degli anni '70. Lo vidi e fu subito amore.
Per undici anni ci ho passato le vacanze, quelle estive, quelle invernali, quelle pasquali, e in ogni stagione questo minuscolo villaggio sapeva emanare un suo fascino particolare.
Sonnolento sotto il sole estivo, con il rosso dei gerani che sembrava incendiare le case; o ammantato di neve, con i lunghi ghiaccioli che impreziosivano i tetti spioventi creando fantastiche sculture di cristallo; o sommerso in primavera da una coltre gialla di tarassaco in fiore.
E, sempre, di notte, un'esplosione di stelle come non si riesce più a vedere sulle nostre città, offuscate dallo smog e dall'inquinamento luminoso.
In questo delizioso villaggio alpino ho lasciato il cuore, e anche dei cari amici, che di tanto in tanto torno a trovare.
Certo, ora il paese è più grande, i prati ricoperti di tarassaco hanno lasciato il posto a tante altre villette bianche con i balconi di legno traboccanti di gerani; c'è un altro piccolo albergo e accanto alla vecchia scuola c'è ora un nuovo edificio scolastico.
La stazioncina abbandonata è sempre più in rovina, ma esercita sempre lo stesso fascino sui bambini del paese che, sfidando i divieti continuano, come i bambini delle generazioni che li hanno preceduti, a scavalcare la recinzione per andare a vivere fantastiche storie fra le vecchie mura cadenti e i binari divelti e arrugginiti.
La chiesetta è stata ridipinta e nel piccolo cimitero c'è qualche croce in più, ma la domenica, all'uscita dalla Messa, i paesani continuano a scambiare saluti e chiacchiere davanti alla chiesa, fra le aiuole fiorite delle tombe.
L'albergo sulla provinciale è stato piacevolmente ristrutturato ed esibisce una invitante piscina ai margini del meleto; ora l'aspetto dell'albergo predomina su quello del vecchio maso, ma c'è sempre il biondo Herr Hermann che di sera siede nel bar con i suoi clienti a giocare a carte e bere birra, mentre Frau Emma, la sua bella moglie, serve gli avventori, nel suo tipico abito tirolese(ne ha uno di colore diverso per ogni giorno della settimana).
La Plose è sempre là, immutata e immutabile e, nelle notti serene, ancora si può vedere una profusione di stelle, pulsanti nel velluto blu cupo del cielo, che sembrano talmente vicine da poterle toccare.
---------
immagini prelevate dal sito di Carla Castellani, ad esclusione dei balconi fioriti (foto di C.Colombo)
ALLA PROSSIMA con la penultima pagina..con un'altra Krilu'... e poi ...e poi.... la proclamazione dei vincitori del volume, con metodo scelto daKrilu'
LA LINGUA CHE CI ACCADE
GRAZIE A VOI TUTTI.